Il dio Lupo

La Sacerdotessa e il dio Lupo.
Di tempismo e pessime idee.

C’era un tempo in cui gli uomini vivevano in simbiosi con la Natura e tutte le sue creature, un tempo in cui gli dei camminavano fra loro e ascoltavano le loro voci.

In quel tempo viveva una Sacerdotessa che amava il proprio villaggio e la propria gente come una madre i figli.

Era il tempo in cui le legioni della grande Roma stavano lasciando la fiera e misteriosa Britannia alle orde dei crudeli barbari venuti dal Nord.

Avvenne così che il villaggio di quella Sacerdotessa fu distrutto, che la sua amata gente fu trucidata e che lei fu fatta preda della brama degli orribili uomini-mostro venuti dal Grande Freddo.

Per molti giorni essa pianse fra le rovine della propria vita, per molte notti vagò nei boschi, invocando la forza di vendicare il proprio strazio e proteggere i più deboli e i giusti.

Era il tempo in cui gli dei ascoltavano le preghiere degli uomini.

Avvenne così che la Sacerdotessa incrociò il proprio destino con il potente e feroce dio Lupo che la amò in una notte di luna piena, lasciando nel suo ventre la forza per la quale lei aveva tanto pregato e pianto, la forza con la quale avrebbe “reso giustizia e protetto”.

Fu così che nacque la gloriosa stirpe dei licantropi, in parte uomini e in parte Lupi.

La stirpe prosperò e diede figli e figlie capaci di generare licantropi di sangue, ma anche licantropi nati dal loro morso, quel morso che infligge grande sofferenza, ma che dona grande forza, quel morso che è insieme dono e dannazione.

I branchi si dispersero nel mondo e si sottomisero alla saggezza e alla forza dei loro Alfa che perpetuarono le due stirpi, mantenendo sempre vivo il precetto del dio Lupo, rendere giustizia ai più deboli e proteggere i giusti.

Gli Alfa commisero tuttavia un grave errore. Soggiogati dal potere del plenilunio, dominati dell’istinto del Lupo, mutati nella forma più selvaggia si unirono fra loro e diedero vita a licantropi troppo crudeli, i cui istinti fecero a brandelli il precetto del dio Lupo, licantropi che divennero dei dalla forza ineguagliabile.

Fu così deciso che i figli del dio Lupo non potevano essere concepiti durante i pleniluni da licantropi, perché la ferocia di quegli dei aveva causato la rovina dei branchi, quasi decimati dagli esseri umani, terrorizzati e superstiziosi.

Nei secoli a venire, tutti i licantropi si adeguarono a quella legge con devoto rispetto.

In tanti secoli un Alfa soltanto ebbe l’ardire di venire meno a quella legge.

Nelle fredde terre del grande Nord egli amò la figlia di un potente Alfa.

In una notte di plenilunio, entrambi mutati in licantropi, concepirono un figlio destinato a diventare il dio Lupo, l’Alfa degli Alfa, colui che un giorno dominerà e guiderà i branchi.

Quante volte, sua madre Amanda gli ha raccontato quella favola, quando era bambino!

In qualche modo, Lukas se l’è sempre sentita dentro, nel profondo del cuore, ma non poteva immaginare quanto fosse davvero legata al proprio destino.

Quella favola era il suo passato e il suo futuro!

A causa di quell’antica leggenda, di quel terribile destino, Lukas era stato obbligato a fuggire e a nascondere al mondo la propria esistenza, dopo aver perso molto di ciò che amava, persino una parte di se stesso.

Quando, dopo molti anni, finalmente ha deciso di tornare a casa, divorato dalla nostalgia e dalla solitudine, la sua strada impiega una manciata di istanti a prendere la direzione peggiore. 

Di Tempismo e Pessime Idee

Il tempismo nella vita è tutto.

Nella propria vita, Hanna ha sempre avuto il peggior tempismo possibile, quantomeno quando si trova ai famosi bivi, quelli che… se sbagli strada è fatta! Indietro non si torna e davanti? La più ripida delle salite, oppure delle discese, comunque un casino.

Ecco! Tutti quei bivi, quel pessimo tempismo e quelle strade sbagliate l’hanno portata fin qui: trentadue anni, un locale notturno in una cittadina, che fa tanto periferia della grande metropoli, e un figlio di sedici anni, per poi scoprire che il tempismo è ereditario! Quel tempismo che mette nei guai e, quando di anni ne hai sedici, beh i guai che trovi non prevedono saggezza, nemmeno un briciolo.

Tommaso, Tommy, come tutti lo chiamano sempre, è quel tipo di ragazzino che ha dovuto crescere in fretta, insieme a sua madre Hanna, occupandosi di lei tanto quanto lei si è sempre presa cura di lui. “Io e te” è la loro formula magica che gli ha permesso di vivere insieme per sedici anni superando ostacoli e difficoltà di ogni tipo.

Tommy si divide fra la moto, gli amici, il nuoto e il liceo, raggiungendo, in modo abbastanza sorprendente, ottimi risultati, soprattutto considerato il tempo che dedica a ciascuna attività, dove moto, nuoto e amici hanno, in quest’ordine, un posto prediletto.

Sua madre Hanna trascorre le giornate organizzandosi sui tempi del proprio locale, che assorbe la maggior parte delle sue energie e del suo tempo, ma Tommy e la sua moto sono il suo pensiero fisso, nella costante speranza che si trovino esattamente dove dovrebbero essere, come quella notte di metà maggio! Una di quelle notti che hanno il sapore della magia, illuminate da un’incredibile luna piena, quelle in cui il tempismo è essenziale.

Sono le due del mattino di una domenica.

Hanna sta chiudendo il locale e Tommy sfreccia lungo la statale che attraversa il bosco per tornare a casa.

Ha trascorso una piacevole serata a Milano con alcuni amici ed è del tutto ignaro di cosa stia accadendo nel folto del bosco, poco lontano dalla strada che lui sta percorrendo.

Il tempismo nella vita è davvero tutto! Alcune volte più di altre!

Lukas, che sta correndo a perdifiato nel bosco per salvarsi la vita, ne ha appena avuto la conferma.

È tornato a casa per il suo trentaquattresimo compleanno, dopo diciassette anni di lontananza. Si è presentato un giovedì sera di fine aprile alla porta di Marco, il suo patrigno, con la speranza e il bisogno di trascorrere un paio di mesi con lui, in pace, prima di tornare a nascondere al mondo la propria esistenza. Sono state due settimane di serenità. Hanno trascorso le giornate insieme come se nulla fosse, come padre e figlio che da lungo tempo non si vedono e che tanto hanno bisogno di stare insieme, come se lui non fosse chi è in realtà.

Fino al plenilunio!

Con la luna piena, Lukas ha deciso di concedersi una corsa nel bosco, proprio come faceva da ragazzo, una di quelle corse nelle quali l’istinto prevale, nelle quali si sente vivo e libero, una di quelle corse di cui ha bisogno per sfogare la sua natura più selvaggia.

Con terrificante tempismo tre licantropi gli hanno sbarrato la via, tre licantropi che non avrebbero dovuto trovarsi lì, tre licantropi che lo hanno aggredito subito.

Quanti anni sono trascorsi dall’ultima volta in cui ha affrontato un proprio simile!?

Troppi!

L’euforia della lotta, l’ebbrezza del sangue, la forza del Lupo, l’istinto di sopravvivenza, che lo spinge a schiacciare l’avversario, inebriano i suoi sensi e lo fanno sentire potente come non gli accadeva da troppo tempo, ma sa che la presenza di quei tre Lupi a Vigevano può significare solo enormi guai. Non può abbandonarsi ai propri istinti.

Non ha la più pallida idea di chi siano e di cosa vadano cercando, ma di certo, in quel momento, vogliono la sua vita.

Abbattuto il primo licantropo in un feroce corpo a corpo, Lukas fugge nel bosco, attirandosi dietro gli altri due con l’intenzione di portarli lontani da Vigevano e dal suo patrigno Marco.

Non è per la propria vita che teme, mentre sfreccia fra le fronde inseguito a breve distanza dai due feroci lupi antropomorfi, quanto piuttosto per la possibilità che si diffonda la notizia che è proprio lì, a Vigevano, che si nasconde il figlio di Nathaniel Úlfheðinn.

Troppo distratto, non si avvede della direzione che ha preso, se non quando è ormai tardi.

La sottile striscia d’asfalto sotto ai suoi artigli lo avvisa che hanno raggiunto la statale.

Si blocca al centro della strada, cercando di orientarsi, ma viene travolto dalla furia dei suoi inseguitori.

Un dolore lacerante al fianco lo avvisa che gli artigli di uno dei licantropi gli hanno aperto profondi squarci nella carne.

Inarca la schiena e afferra il licantropo che gli è saltato addosso e sta cercando di azzannargli la spalla. Lo solleva di peso e lo scaraventa lontano da sé, oltre il ciglio della strada.

È troppo concentrato sul proteggere la propria vita dall’assalto del secondo licantropo per accorgersi del rombo del motore che si sta avvicinando ad alta velocità lungo il rettilineo che precede la curva al centro della quale si sono fermati.

Il faro della moto appare all’improvviso.

Il motociclista si ritrova la carreggiata sbarrata, frena di colpo, sbanda, e carambola fuori strada.

La moto striscia sull’asfalto e finisce la propria corsa accanto al margine del bosco.

Scivolato fra l’erba, accanto alla moto, fissa il cielo scuro attraverso la visiera del casco, aspettandosi il dolore di ferite che teme di aver riportato, incredulo di essere ancora tutto intero.

Si solleva seduto e si guarda intorno, cercando di capire cosa gli abbia sbarrato la strada così all’improvviso.

Resta immobile con gli occhi sbarrati fissi al centro della statale dove, alla luce dell’incredibile luna piena, tre irsuti figuri stanno selvaggiamente combattendo.

Due di loro sembrano scagliarsi contro il terzo che sta cercando di difendersi come un dannato.

All’improvviso, sollevato di peso, uno dei tre viene scaraventato dritto verso il motociclista che trattiene il respiro seguendo con gli occhi spalancati il corpo, imponente e coperto di peluria scura, rotolare fino a fermarsi a meno di due metri.

L’incredibile creatura si solleva ritta sulle… gambe?... zampe?…

Lo fissa con grandi occhi gialli incastonati in un viso che non è quello di un animale, ma non è nemmeno quello di un uomo!

Sotto shock, il motociclista inspira una grande quantità d’aria e scatta in ginocchio per fuggire, ma è troppo tardi!

La creatura gli si avventa contro come una valanga di pietra, lo travolge, lo scaraventa in terra e gli azzanna con ferocia il braccio che ha sollevato per proteggersi dal suo assalto.

Un dolore lancinante gli esplode nelle carni dell’avambraccio dove le zanne affondano fino all’osso e gli attraversa il braccio come una scossa elettrica.

Il motociclista caccia un grido terribile, inarca la schiena e cerca di divincolarsi, ma gli artigli del mostro scivolano dentro il suo fianco destro e lo inchiodano a terra, mandando in tilt i suoi ricettori del dolore in un’esplosione di mille lucine davanti al suo sguardo annebbiato.

Lukas accorre al suo fianco in quel momento e, con un ringhio minaccioso, si getta sul licantropo.

Gli agguanta le spalle e lo schianta sull’erba, allontanandolo dal motociclista, steso in terra. Con esasperata ferocia gli affonda le zanne nel collo, tranciandogli la giugulare.

L’ultimo licantropo, vista la morte del compare, si dà alla fuga, sparendo nel bosco.

Lukas si solleva dritto e con un potente ululato si muove per inseguirlo, ma viene trattenuto dai deboli lamenti del motociclista steso in terra.

Si volta a guardarlo e annusa nell’aria l’odore metallico del sangue umano.

Se il licantropo gli scappa, Lukas corre il rischio che la sua presenza lì venga palesata a tutti coloro che lo stanno cercando, suo padre Nathaniel per primo, ma non può abbandonare quell’uomo ferito al proprio destino, lì da solo nel bosco in piena notte!

Inspira più volte lunghe boccate d’aria e chiude gli occhi, ancorandosi al pensiero dell’uomo ferito, e lentamente richiama il Lupo, recuperando sembianze umane.

Si avvicina al motociclista e gli si accoscia accanto, sperando che non sia abbastanza lucido da rendersi conto che ad avvicinarlo è un uomo nudo che fino a pochi istanti prima ululava nel bosco con le sembianze di un uomo lupo!

Con prudenza gli toglie il casco e rimane immobile, con gli occhi spalancati.

Si trova a fissare il volto di un ragazzino pieno di lacrime, che, straziato dal dolore, respira a fatica. Il suo cuore batte impazzito per la paura. Le sue condizioni sono gravi. Il giubbotto imbottito con le protezioni per la moto è lacero e coperto di sangue sull’avambraccio destro e sul fianco.

Lukas si guarda intorno cercando di tenere a bada la presa del panico sul proprio cuore.

Come cazzo hai fatto a non renderti conto che stavi correndo dritto verso la strada!?

Come hai potuto commettere un errore così grave!?

Hai fatto un casino, Lukas!

Questo ragazzino ha bisogno di aiuto, subito!

Mantieni il controllo.

Non puoi portarlo in ospedale! Sei nudo e queste non sono ferite normali!

Marco ha detto che sarebbe rimasto in clinica stanotte! Devi portarlo da lui! È l’unico che può dargli una mano.

Avanti! La responsabilità di quello che è successo è tua! Risolvi il guaio che hai combinato e poi sparisci veloce, prima che accada l’irreparabile.

Si raccoglie su se stesso e si lascia sopraffare dagli istinti del Lupo, riprendendone la forma.

Lancia un altro potente ululato, che risuona in tutto il bosco, spaventando centinaia di creature, e si carica in spalla il ragazzo svenuto.

Sorreggendo con un braccio il corpo inerme, corre su tre zampe verso la città, prestando attenzione a non incrociare nessuno, fino alla Clinica Veterinaria del Dottor Marco Ercoli, dove recupera le proprie sembianze umane.

Il patrigno lo fissa a occhi sgranati entrare in ambulatorio, nudo, con un ragazzino svenuto e sanguinante fra le braccia.

«Lukas!?

Che è successo!?

Chi è questo ragazzo!?

Sei ferito!»

Marco nota preoccupato i tre profondi squarci che gli segnano il fianco sinistro e la ferita alla spalla che sanguina fin sul petto, un morso, a una prima occhiata.

«Io sto bene! Le mie ferite stanno già guarendo!

Sono…

Tre licantropi! Mi hanno attaccato nel bosco, inseguivano me. Mi sono diretto verso la strada. Non me ne sono reso conto… Papà, ho fatto un casino!

Lui ci stava passando in moto. Sono riuscito a sistemarne due, ma l’ultimo….

L’ultimo mi è scappato., papà!

Il ragazzo… lo ha ridotto così uno di loro»

L’uomo fissa l’espressione angosciata di Lukas e il ragazzino svenuto fra le sue braccia.

«Bisogna portarlo in ospedale, Lukas. Io… io sono un veterinario!

Questo ragazzo ha bisogno di un ospedale»

«Papà!?

È stato azzannato da un licantropo!

Io sono nudo e pieno di morsi che entro breve saranno guariti.

Come cazzo faccio a portarlo in un ospedale!?»

Lukas ignora il patrigno e si avvicina al tavolo di lucido metallo, che in genere ospita cani, gatti o qualche più raro animale esotico, adagiandovi sopra il ragazzo.

Marco si porta le mani fra i lunghi capelli mossi in morbide onde d’argento e fissa il volto pallido del ragazzino con un’espressione disperata.

Non avrà più di sedici anni!



Semplicemente Maya.

Gennaio. 
Una frana inizia sempre con un sassolino che cade.

«Che hai combinato questa volta, Ben!?

Cosa diamine ti frulla in quella testa vuota!?

Scansafatiche che non sei altro!

È vergognoso!

Hai davvero sbattuto la porta in faccia al Dottor Paris senza nemmeno una spiegazione!

Che ti è saltato in testa?! Cosa ti è successo stavolta?! – Doc tace nella speranza di avere una spiegazione, ma Ben non fiata – Cosa devo fare con te, ragazzo?! Cosa!?

Ho speso il mio nome per farti assumere in quella Clinica!

Che razza di figura mi hai fatto fare!?

Paris stava per chiamare lo Sceriffo.

Sei sparito per giorni!

Ben!?

Ci sei ancora?

Mi stai ascoltando!?»

Ben mugugna un assenso, passandosi una mano sul volto, e fissa il soffitto della casa mobile.

È sdraiato su quel divano da quanto?

È giorno o notte?

«Sei ubriaco!

Quanto hai bevuto questa volta!?

Sei fatto? Ti sei fumato quella tua dannata robaccia!?

Ben!?

Sei un maledetto irresponsabile!

Finirai per ammazzarti un giorno o l’altro!

Adesso ti alzi da quel cesso nel quale sarai di certo sdraiato e ti dai una ripulita!

Chiederai scusa al Dottor Paris per il tuo comportamento inaccettabile e tornerai al lavoro.

Datti da fare!

Non farmi venire fino a Challis a rimediare alle tue stupidate, ragazzo!

Fa’ qualcosa di buono della tua vita, prima di gettarla del tutto nel cesso!»

Ben non riesce nemmeno a rispondergli, non è in grado di dirgli una sola parola; vorrebbe urlargli contro tutto il dolore che lo sta divorando dentro, ma, ancora una volta, non riesce e tace annuendo.

Il padre chiude la telefonata con stizza e Ben si solleva dal divano con un opprimente senso di nausea; si rifugia in bagno e infila la faccia nel water per liberare lo stomaco che contiene solo gin e poco di solido ormai da diversi giorni.

Lo specchio incrostato, sopra il lavandino, gli rimanda l’immagine di un fantasma che non riconosce più. Volto pallido, guance scavate, barba incolta, profonde occhiaie e i suoi occhi scuri sempre più spenti.

Si passa le mani fra i lunghi capelli aggrovigliati e sputa nel lavandino, disgustato dal sapore acido del vomito.

Si dà una ripulita, cambia la maglietta e agguanta la giacca, ma non ha alcuna intenzione di andare a chiedere scusa a quel pallone gonfiato del Dottor Paris per tornare a pulire vomito e sangue dal pavimento della sua dannata clinica!

Non avrebbe mai dovuto metterci piede lì dentro, lo sapeva bene fin dall’inizio, ma dire di no al grande “Doc” è l’unica cosa che non imparerà mai a fare.

Dannazione!

Si infila al Challis Lodge con tutta l’intenzione di non uscirne sulle proprie gambe.

Questa volta nessuno lo porterà di corsa dall’infallibile Doc!

Non è più a Solomon Bridge.

Non c’è nessuno che lo salverà da se stesso e dai propri fantasmi.

Tanto meglio!

«Ehi amico, è un po’ che ti osservo!

Quanto gin ci sta ancora lì dentro?»

Ben solleva lo sguardo annebbiato sul volto squadrato dell’uomo che lo ha avvicinato al bancone. Gli zigomi pronunciati fanno somigliare il suo volto a un teschio con lo sguardo celeste freddo come il ghiaccio.

«Che problemi hai?»

Lo sconosciuto non si lascia impressionare dalla risposta scontrosa che gli ha sbiascicato e sorride, sebbene i suoi occhi rimangano due schegge di gelido ghiaccio.

«Tu mi sa qualcuno più di me!

Ehi, barista! Un altro giro per me e… come ti chiami?»

«Ben»

«Ok!

Un altro giro per me e il mio nuovo amico Ben! – il tizio batte la mano sul bancone e siede su uno sgabello accanto a lui – Io sono Jaster Maloon, ma tutti mi chiamano J.

Sei di queste parti, Ben?»

Ben sbatte più volte le palpebre, cercando di schiarirsi le idee confuse dall’alcool.

L’ultima cosa che ha voglia di fare è conversazione con il primo stronzo che gli capita intorno.

«Ok, ho capito! Non è serata per te, Ben.

Va bene!

Allora beviamoci questo gin in silenzio. Per me non è un problema»

J tracanna metà del liquore nel proprio bicchiere e si volta a osservare in silenzio il salone del Challis Lodge.

È un locale come molti altri, lungo le rive del Salmon River, uno di quei posti che piacciono tanto alla gente di città, tutto legno e luci basse che fanno molto vecchio saloon.

J ne ha le balle piene di tutto quel finto vecchio western che i turisti cercano tanto; fra quello e i salmoni non sa cosa lo disgusti di più.

Dannato buco nero del mondo!

«Non sono di Challis»

J volta un’occhiata traversa su Ben, quasi sdraiato sul bancone. Gli ha risposto senza nemmeno guardarlo in faccia.

Quell’ubriacone ha le carte in regola per essere l’interessante passatempo in cerca del quale J è entrato in quello schifoso locale.

Forse, dopotutto, quel viaggio a Challis potrebbe anche rivelarsi meno noioso del previsto.

«Sono di Solomon Bridge»

«Cazzo, amico!

Solomon Bridge!?

Pensavo fosse una merda vivere da queste parti, ma tu hai sperimentato di peggio.

Che cazzo c’è a Solomon Bridge oltre alle mucche!?»

«La merda delle mucche»

J scoppia in una risata sguaiata e torna a voltarsi verso il bancone.

Ben solleva il bicchiere verso di lui in segno di ringraziamento.

«Alla tua salute, Ben!

Goditela prima di tornare in quel cesso, fra mucche e merda di mucche»

«Me ne sono andato da Solomon Bridge.

Cinque anni fa.

Non ne potevo più»

«Non faccio fatica a crederci!

E che fai qui a Challis?»

«Tutto quello che c’è da fare»

Quella è esattamente il tipo di risposta che piace a J, sul volto del quale si dipinge un sottile sorriso intrigato.

«Ah sì, eh? Tipo cosa?»

Ben sbuffa e si passa una mano sul mento ispido per riordinare le idee.

«Tipo…

Ho guidato i camion della miniera di molibdeno, giù a Thompson Creek. I primi tempi.

Poi ho fatto il barista, il giardiniere, il cameriere. Ho lavorato anche alla pompa di benzina Kimble Oil e ho fatto persino l’inserviente alla Clinica di Challis»

«Ehi amico! Sei uno che non ha paura di sporcarsi le mani»

«Mai! Mi sono sempre dato da fare.

Ho sempre cercato di sbrigarmela da solo, ma…

Non è mai abbastanza!»

Sul volto di Ben si dipinge un sorriso amaro che attira la curiosità di J.

J è abituato a inquadrare in fretta la gente, non potrebbe essere altrimenti. È cresciuto imparando a trarre il massimo beneficio per se stesso da ogni situazione e da ogni incontro e, nel tipo di affari che porta avanti, capire chi si ha di fronte è fondamentale per la sopravvivenza.

«Chi ti sta addosso, eh, amico?

Una bella puttanella che non è mai contenta dei regali che le fai?»

«No, niente di così romantico, amico.

Mio padre!

È lui!

Il grande Doc della Solomon Bridge Valley!»

«Doc?»

«Già.

Non dirmi che anche tu ne hai sentito parlare!? Ma che cazzo! Ma di che mi stupisco. Dubito che ci sia qualcuno fra queste maledette montagne che non conosca il Dottor Clearwater, colonna portante di tutta la Solomon Bridge Valley.

Mio padre!

Mica un dottore qualunque! No! Il nipote del Reverendo Solomon Clearwater, il bastardo che quella valle l’ha fondata, cosa che fa di me il deludente fallito pronipote di quel dannato Reverendo»

Il gin ha sciolto la parlantina a Ben e J inizia a vederlo sotto una luce diversa.

Non è un disperato qualunque ubriaco marcio e con un gran bisogno di sfogarsi, è figlio di un medico e, a quanto pare, anche piuttosto famoso nella zona, uno che potrebbe tornare molto utile ai suoi affari.

Quel viaggio a Challis non è stato affatto inutile come aveva temuto! La faccenda si fa più interessante ogni istante che passa.

Quel disgraziato pieno di casini quasi peggio di lui sembra proprio fare al caso suo per molte ragioni.

È da un po’ che J non ne può più degli imbecilli che gli girano intorno come le falene alla luce, tutti in attesa che lui getti loro le proprie briciole.

Sono anni che suo fratello Simon l’ha piantato da solo e si è rifatto una vita dall’altra parte degli States con quella troia che gliel’ha portato via. L’ha lasciato da solo a prendere a morsi la vita per ottenere tutto quello che sente di meritarsi.

D’istinto J si porta la mano sinistra sul polso destro, strofinando il pollice sulla S serpentina che si è tatuato diciassette anni prima. Chissà se Simon si è fatto cancellare la sua J!?

Dovevano guardarsi le spalle, era stata quella la promessa che si erano fatti da bambini, e invece adesso J le spalle se le deve guardare da solo, per colpa di una dannata puttana che ha rimbambito Simon fino a portarglielo via, riempiendogli la testa di cazzate.

«Sono stufo!»

J torna a concentrarsi sulle parole di Ben che non riesce più a nascondere la propria delusione e la propria rabbia.

«Mi ha chiamato solo per sgridarmi, nemmeno fossi un dannato bambino!

Mi sbatte in faccia la sua cazzo di perfezione ogni volta, per farmi sapere quanto io sia una delusione per lui.

Mai una volta che mi chiami per sapere come sto, come me la sto cavando, solo per criticare.

Sono dieci anni, da quando ho finito la scuola, che mi arrangio da solo! Vivo a Challis da sei e mi trovo un lavoro dietro l’altro per mantenermi senza chiedergli niente. Sei cazzo di fottuti anni! Ma per lui non è mai abbastanza.

Io non sono mai abbastanza!

Dannato Bastardo!

Fanculo.

Avrebbe dovuto immaginare che pulire ambulatori da vomito e sangue sarebbe stata un’idea di merda per me.

Ne ho abbastanza dei suoi giudizi»

«Ma tu hai ragione, amico mio!

Sei un uomo!

Che si fotta tuo padre!

Lo sai? Anche mio padre era un dannato bastardo come il tuo.

Teneva in scacco la mia vita. Ci stava addosso. Ci massacrava di botte per niente, bastava lo sguardo sbagliato. Avrebbe finito per farci fuori, ma ci ha pensato un figlio di puttana suo pari, a risolvergli la vita.

Bam! – J sbatte il palmo sul bancone facendo sussultare Ben che si sta sforzando di seguire il suo racconto – Un colpo di pistola dritto in testa.

Il proiettile è entrato dalla nuca ed è uscito in mezzo agli occhi.

Quella pazza drogata di mia madre ha voluto tenere a tutti i costi la bara aperta al funerale. Hanno tentato di convincerla a chiuderla, per coprire quello schifo, ma ha fatto il diavolo a quattro per impedirlo.

Un colpo secco, amico, e mi sono ripreso la mia vita.

Bam! Ed è finita. Io ero libero.

La vita è tua. Te la devi gestire come ti pare.

Hai ragione! Non sei mica più un bambino.

Che cazzo, sei un uomo e sei anche un tipo in gamba.

Sai? Mi farebbe comodo uno come te, su a Salmon, per aiutarmi negli affari. Sono circondato da inetti leccaculo che non sono buoni a far nulla.

Tu sei sprecato a pulire merda e vomito dai pavimenti di una cazzo di clinica!

Io potrei avere lavori più interessanti per uno come te, che non ha paura di rimboccarsi le maniche per fare quello che c’è da fare.

Che ne dici?

Potresti farti un paio di settimane da me a Salmon, per vedere come girano le cose da quelle parti.

Con me!»

«Non lo so. Io non…

Non posso mollare tutto così.

Quelli della clinica mi stanno addosso. Mio padre…»

«Tuo padre!?

Ma chi se ne fotte di quello stronzo!

È un’ora che sono qui seduto a sentirti frignare per tuo padre e la merda che ti butta addosso e sei ancora qui a farti menate per lui?!

Se la vita non ti ha mai dato un cazzo, Ben, amico mio, è ora che tu cominci a prenderti da solo quello che ti piace.

Devi fare come faccio io.

Avanti!

Vieni con me!

A casa mia gira un sacco di figa e parecchia roba con cui puoi sballarti.

Ti farò dimenticare tutti i tuoi guai. Ho sempre molto a cuore la felicità dei miei amici. Sono un uomo generoso e tu mi piaci, Ben.

Io e te siamo simili, te lo leggo in faccia.

Vieni a Salmon con me.

Hai diritto anche tu a distrarti un po’ dalla tua merda e insieme faremo grandi cose, Ben. Vedrai!

Insieme a me, troverai il tuo destino»

J tracanna il gin rimasto nel proprio bicchiere e butta qualche banconota sul bancone, sfilandola da una mazzetta piuttosto sostanziosa.

Ben è troppo ubriaco per resistere alla malia di J e farsi troppe domande e così, il pomeriggio successivo, si sveglia, disorientato e confuso, a casa di J a Salmon con una biondina nuda, sdraiata addosso, della quale non ricorda nemmeno il nome.

Ha i postumi del peggior dopo-sbornia degli ultimi quindici anni, almeno fra quelli di cui riesce ad avere memoria, ma J non gli lascia il tempo di capire cosa gli stia succedendo e lo riempie di fumo e alcool fino ad annebbiargli tutti i sensi.

I giorni iniziano a susseguirsi fino a diventare settimane.

Ben si ritrova coinvolto nella vita di J senza rendersene conto, ma la convivenza con lui gli piace e il perenne stato di stordimento emotivo che l’amico gli garantisce, impedendogli di pensare ai propri fantasmi, è un toccasana per la sua anima. Ha una donna diversa ogni volta che vuole, fuma erba fino a dimenticarsi il proprio nome e tutti lo rispettano per paura di J.

J lo tratta come un fratello; non gli fa mancare nulla e, in cambio, Ben si prodiga per aiutarlo con i suoi traffici.

Non sa molto dei trascorsi di J e nemmeno gli interessa approfondire. Ha imparato che con J è meglio non fare troppe domande.

Sa che è stato dentro un paio di volte per quelli che ha definito errori di gioventù e che ha un fratello più grande dall’altra parte degli States che lo ha tirato fuori dai guai, ma che gli ha voltato le spalle e non lo aiuterà più, perciò J sta cercando in tutti i modi di non ficcarsi di nuovo nei casini, ma questo non vuol dire che stia rigando dritto, anzi!